Lo zen e la sua relazione
con gli elementi delle arti
orientali e occidentali
di Fredric Lieberman
Fredric Lieberman è un famoso etnomusicologo americano, compositore, professore di musica e studioso presso l'Università della California a Santa Cruz.
E' noto per il suo ruolo chiave nella collaborazione tra l'Università della California e il gruppo rock "The Grateful Dead", che ha portato gli archivi della band nella biblioteca McHenry del'Università; ha anche assistito il loro batterista, Mickey Hart, nella realizzazione dei suoi tre libri: Planet Drum, Drumming at the Edge of Magic e Spirit into Sound.
E' compositore e co-autore di uno studio biografico sul compositore Lou Harrison e autore di numerose altre pubblicazioni. Molto del suo lavoro editoriale è stato dedicato all'esame degli aspetti complessi della teoria musicale e all'esplorazione della musica americana, asiatica, giavanese e balinese, con particolare attenzione alla musica tradizionale ai suoi percorsi e agli strumenti culturali.
Lieberman è anche un appassionato collezionista di strumenti musicali tradizionali provenienti da tutto il mondo.
Questo saggio viene proposto da Cultor grazie alla cortese collaborazione della professoressa Luciana Galliano, docente di Storia della Musica d'Autore dei Paesi Extraeuropei presso l'Università Ca' Foscari di Venezia - Dipartimento di Filosofia e Beni Culturali.
Consulta le pubblicazioni del prof. Lieberman
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I. Principi di base dello zen
Lo zen (chan) in Cina ha condiviso molto con il taoismo di Lao-tzu e Chuang-tzu, così che è difficile determinare quanto dello zen sia di origine buddista e quanto taoista.
A questo proposito è importante ricordare, che stiamo parlando del taoismo e dello zen cosiddetti "filosofici", in contrapposizione al "taoismo degenerato" e allo "zen istituzionalizzato" dei tempi più recenti.
La premessa di base, che la più alta verità, o primo principio, o Tao, non sia esprimibile a parole o concepibile attraverso il pensiero logico, è comune sia al taoismo che allo zen. Entrambi sostengono, inoltre, che una comprensione intuitiva del primo principio è possibile e si chiama Illuminazione.
Si considera che il saggio taoista illuminato abbia acquisito una certa conoscenza speciale, insieme con abilità arcane, e per questo si sia in qualche modo allontanato dal mondo, mentre il Maestro zen non consegue altro che la realizzazione che non c'è niente da guadagnare ed è quindi più che mai nel mondo.
Mentre Lao-tzu dice poeticamente "Il Tao che può essere nominato non è il vero (eterno) Tao", il Maestro zen prende questo per scontato; se interrogato in proposito la sua risposta sarà molto probabilmente un non sequitur, oppure potrebbe urlare "Kwatz!" o colpire il discepolo.
Questo non è quietismo taoista (wu-wei), ma un'azione in cui le parole non servono. L'effetto è quello di costringere lo studente a tornare nella sua mente, piuttosto che promuovere una dipendenza dagli insegnanti.
L'illuminazione consiste nel rendersi conto che la natura del Buddha esiste in tutto e tutti. "Guarda nella tua mente" e troverai che la natura del Buddha è stata sempre presente.
Il Buddha storico non è superiore o inferiore al più modesto essere senziente, tutti partecipano della natura del Buddha. Le scritture sono inutili, i rituali non portano da nessuna parte. L'illuminazione è possibile per tutti: gli analfabeti possono raggiungere la stessa esperienza degli studiosi preparati. L'eternità è qui e ora. Non c'è bisogno di cercare di imparare qualcosa di nuovo, solo realizzare ciò che è già presente.
La natura del Buddha non è metafisica, non è qualcosa di separato da noi stessi. Non c'è nulla da guadagnare dall'illuminazione. Ci rendiamo conto che non c'è niente da realizzare. Alcuni studiosi zen sono stati più categorici su questo punto rispetto ad altri. Suzuki ha detto: "Prima dello zen gli uomini sono uomini e le montagne sono montagne, durante lo studio zen le cose diventano più confuse, dopo l'illuminazione gli uomini sono uomini e le montagne sono montagne, solo i piedi sono un po' più distanti da terra". Altri studiosi sostengono che non vi è nulla: siamo sempre stati illuminati e saremo per sempre illusi; l'illuminazione zen consiste solo in questa realizzazione. (Fung 1952: II, 400).
Passare dalla delusione all'illuminazione significa lasciare la propria umanità mortale alle spalle ed entrare nella saggezza. La vita del saggio, tuttavia,. . . non è diversa da quella degli uomini comuni, "la mente ordinaria è il Tao" e la mente del saggio è la mente ordinaria. (Fung 1952: II ,402-403).
La natura di Buddha sta nel fatto di essere, non al di fuori. Come dice Blyth (1960a: 27): "L'essenza è beatitudine. Non c'è felicità in qualcosa di infinito o finito, solo l'essenza è felicità..." L'universo è uno stato indeterminato di essenza in continua evoluzione. L'essere e il non-essere si fondono. Gli opposti condividono la natura di Buddha, differiscono nella loro essenza, o spirito, individuale.
Sia secondo lo zen che il taoismo, tentare di controllare la natura, da parte dell'uomo è allo stesso tempo assurdo e inutile. La storia della società occidentale e della sua tecnologia è stata la storia della lunga lotta dell'uomo per controllare la natura. Il taoista direbbe: agisci come l'acqua, la flessibilità è forza. Quando si tratta di uomini, piuttosto che della natura, il taoista consiglierebbe che, dopo aver riconosciuto la potenza intrinseca della flessibilità, si possa anche usare la forza se la situazione particolare lo richiede.
Il maestro zen dice semplicemente: agisci e non preoccuparti, quello che fai può essere giusto o sbagliato, non è male. Cioè, dal punto di vista universale non c'è giusto o sbagliato: questi sono i valori imposti dalla società - l'universo non fa distinzioni o categorie. Questo solleva la delicata questione della responsabilità morale, ma va notato che l'adepto zen si sforza di realizzare i "Quattro Grandi Voti" in cui si afferma: "Io mi impegno solennemente per salvare tutti gli esseri senzienti". La compassione è anche parte dello zen.
Naturalmente lo zen non è solo questo, ma queste poche idee dovrebbero essere sufficienti per inquadrare la discussione che segue sullo zen e le arti.
Molti studiosi si sono avventurati ad effettuare generici confronti tra l'arte orientale e quella occidentale. Suzuki (1957:30) suggerisce che l'arte orientale rappresenti lo spirito, mentre l'arte occidentale raffiguri la forma.
Watts (1957:174) sostiene che l'Occidente vede e dipinge la natura in termini di simmetrie realizzate dall'uomo e di forme imposte dall'alto, schiacciando la natura per soddisfare le proprie idee, mentre l'Oriente accetta l'oggetto com'è e lo presenta per quello che è, non per ciò che l'artista pensi che significhi.
Gulick la vede così: gli artisti orientali non sono interessati ad una rappresentazione fotografica di un oggetto, ma ad interpretare il suo spirito. . . . L'arte occidentale. . . esalta la personalità, è antropocentrica . . . . l'arte orientale . . . è stata cosmocentrica. Vede l'uomo come parte integrante della natura. . .
L'affinità tra uomo e natura è ciò che ha colpito gli artisti orientali, piuttosto che la loro opposizione, come in Occidente. Per gli occidentali, il mondo fisico è stato una realtà oggettiva, da analizzare, usare, padroneggiare. Per gli orientali, al contrario, è stato il regno della bellezza da ammirare, ma anche di mistero e di illusione che doveva essere rappresentato dai poeti, spiegato dai creatori di miti ed addolcito dagli incantesimi sacerdotali. Questo contrasto tra Oriente e Occidente ha avuto un'influenza incalcolabile sulle rispettive arti, come pure sulle loro filosofie e religioni. (1963:253-255).
L'arte in Occidente ha sviluppato una complessa simbologia linguistica attraverso la quale l'artista manipola il suo materiale per comunicare qualcosa al suo pubblico. L'idea di arte come comunicazione è fondamentale per l'estetica occidentale, così come la conseguente interrelazione tra forma e contenuto.
La musica è considerata un linguaggio dei sentimenti (Hanslick 1957) e si compone di "forme sonore in movimento".
Una pittura di paesaggio nella tradizione occidentale non è semplicemente una riproduzione esteticamente gradevole, l'artista usa le tecniche di armonia, prospettiva e colore, per esprimere la personale reazione al paesaggio, la sua pittura è uno stato d'animo umano "congelato". L'oggetto estetico viene utilizzato come collegamento tra il pubblico e i sentimenti dell'artista e la tecnica dell'artista viene utilizzata per creare un'illusione di forme reali.
L'artista zen, invece, cerca di suggerire con il mezzo più semplice possibile la natura intrinseca dell'oggetto estetico. Tutto può essere dipinto, o espresso in poesia, e qualsiasi suono può diventare musica. Il lavoro dell'artista è quello di suggerire l'essenza, la qualità eterna dell'oggetto, che è di per sè un'opera d'arte naturale, prima che l'artista arrivi in scena. Per raggiungere questo obiettivo, l'artista deve comprendere appieno la natura intima dell'oggetto estetico, la sua natura di Buddha. Questa è la parte difficile. Senza di essa la tecnica, anche se importante, è inutile; l'effettiva esecuzione dell'opera d'arte può essere sorprendentemente spontanea, una volta che l'artista ha compreso l'essenza del suo soggetto.
La fede nella superiorità della maestria spirituale sulla padronanza tecnica è evidenziata da numerose storie di sfide nel bushidō (combattimento giapponese con la spada) in cui i monaci inesperti hanno sconfitto samurai allenati perchè avevano naturalmente compreso l'essenza fondamentale del bushidō e non avevano assolutamente paura della morte.
Un pittore cinese una volta ebbe l'incarico di dipingere la capra preferita dell'imperatore. L'artista chiese la capra, per poterla studiare. Dopo due anni l'imperatore, sempre più impaziente, chiese la restituzione della capra e notizie del dipinto. L'artista confessò di non averlo ancora fatto, e preso un pennello da inchiostro disegnò otto tratti spontanei, creando la capra più perfetta negli annali della pittura cinese.
Lo stile della pittorico preferito dagli artisti zen utilizza un pennello di crine di cavallo, inchiostro nero e usa carta o seta. E' conosciuto come sumi-e.
La grande economia di mezzi è necessaria per esprimere la purezza e la semplicità della natura eterna del soggetto e anche perchè è un fattore di astrazione.
L'arte zen non cerca di creare l'illusione della realtà. Abbandona la fedele prospettiva della vita e lavora con artificiali relazioni spaziali che fanno pensare oltre la realtà fino all'essenza della realtà. Questo concetto di essenza come contrario di illusione è fondamentale per l'arte zen in tutte le sue fasi.
Un esempio interessante della varietà degli approcci alla rappresentazione artistica è quello dei gesti delle danze in Asia.
I gesti della danza indiana, chiamati mudra, si sono sviluppati da un sistema rappresentativo semplice fino ad un simbolismo linguistico altamente astratto che può esprimere stati non fisici dell'essere.
Questo sviluppo è molto simile a quanto avvenuto nella storia della scrittura cinese: il lento sviluppo dei caratteri da pittografici ad ideografici. I mudra, nella maggior parte dei casi, non sono immediatamente riconoscibili e devono essere studiati. Un mudra potrebbe rappresentare il battito di un tamburo con il movimento quasi impercettibile di un dito, o magari un movimento corrispondente del corpo. Non c'è tamburo, nessuna attività concreta di battere.
L'opera contemporanea cinese (Opera di Pechino) è uno sviluppo relativamente recente. Poco si sa delle forme precedenti dell'opera cinese in rapporto alle rappresentazioni ciontemporanee, anche se molti testi sono ancora esistenti. Il gesto nella danza dell'Opera di Pechino fa parte di una stupefacente gamma di gesti altamente stilizzati, costumi, maschere e attrezzi di scena, che portano i competenti al riconoscimento immediato dei personaggi e della storia che viene presentata. La maggior parte di questi gesti, benchè fantasiosi ed aggraziati, sono facilmente riconoscibili senza istruzioni. Quando si batte un tamburo, le mani e il corpo si muovono come per suonare un tamburo: nessun tamburo viene usato, ma anche ai profani non può sfuggire il significato dell'azione. I gesti nell'Opera di Pechino sono pittografici, piuttosto che ideografici, e per convenzione sono molto stilizzati.
Nel dramma giapponese nō, è una forma ispirata dallo zen, i gesti sono resi astratti per semplificazione, piuttosto che per fantasia.
Come nella pittura sumi-e, sono impiegati solo i mezzi strettamente necessari. Ma l'estetica esige che non si violi la natura fondamentale del nō: che è un dramma. Non è realtà, nè cerca di dare l'illusione della realtà: piuttosto, suggerisce la realtà nella sua essenza. Se venissero utilizzati gesti del tutto fantasiosi, si sarebbe impressionati dall'abilità degli attori nell'evocare davanti ai nostri occhi tamburi invisibili o barche o spade. I nostri pensieri sarebbero legati alla complessità della tecnica, anzichè essere liberi di comprendere l'eterna verità di fondo. Nei drammi nō la realtà non è imitata: viene invece raffigurata l'essenza della realtà, ciò che è eterno, la natura del Buddha nelle sue forme generali e particolari.
Pertanto, quando si deve battere un tamburo, viene utilizzato come supporto un elaborato (ma non troppo) tamburo giocattolo, di solito molto piccolo, e l'esecutore batte su di esso senza suonare, con un ritmo visivo completamente libero dallla musica di accompagnamento ! Non possiamo immaginare che una persona reale stia suonando un vero tamburo, siamo costretti oltre la superficie della realtà nel vuoto dell'essenza, nel semplice esserci.
Questo abbandono forzato della realtà esterna è evidente in tutte le manifestazioni del teatro nō. Se nella storia è richiesta una barca, una barca immaginaria ci permetterebbe di immaginare la nostra personale imitazione della realtà:l'oggetto di scena del nō è un semplice evidente telaio aperto di bambù, avvolto in carta bianca: una palese smentita della realtà esterna.
Teatro nō: tre immagini della stessa maschera femminile che mostra come l'espressione cambi con una inclinazione della testa. In queste immagini, la maschera è stata fissata ad una parete con luce costante, spostando solo la fotocamera.
Per completare il ciclo, dobbiamo considerare il teatro proletario del Giappone, il Kabuki. Qui l'estetica richiede massima imitazione e drammatizzazione della realtà. Piattaforme girevoli e scenari dipinti riproducono alla lettera ogni possibile scena di città o campagna (e, occasionalmente, anche l'oceano). Quando nel teatro Kabuki si deve battere un tamburo, si usa un vero tamburo. L'evidenza drammatica del kabuki non è -zen, forse è persino anti zen. Il Kabuki oggi è enormemente popolare tra tutti i ceti sociali in Giappone, mentre il nō rimane un'arte aristocratica, altamente specializzata, inaccessibile alla maggior parte della popolazione.
Utagawa Toyoharu (1735-1814). Il teatro Kabuki, 1770.
E' singolare che la peculiare natura dell'estetica zen abbia creato una forma drammatica, il nō, così remota dalle principali tendenze delle artinel sociale, e contemporaneamente abbia favorito il nascere di una forma poetica, l'haiku, che è diventata immensamente popolare.
L'haiku, come sviluppato da Bashō, e in misura minore da Issa, si è espresso nel linguaggio popolare, evitando frasi di tenore letterario.
E' poesia che celebra il luogo comune.
Guardando i fiori
nella gloria del mattino
faccio colazione. - Bashō
All'interno di una forma del verso molto restrittiva di diciassette sillabe, l'haiku presenta un particolare oggettivo precisamente scelto innatura e la sua semplicità lo rende accessibile a tutti coloro che possano leggere o ascoltarne la lettura.
Realizza in poesia gli ideali di Hui Neng, il Sesto Patriarca del buddhismo zen, che democraticamente affermò che ogni uomo ha la stessa capacità e possibilità di diventare illuminato, indipendentemente dalla sua istruzione o stato sociale.
L'estetica dell'haiku non è molto distante da quella del sumi-e o del nō. Il principio di base è sempre: il massimo dell'essenza con il minimo possibile dei mezzi. Bisogna lavorare solo con poche sillabe, rifuggendo il linguaggio altisonante e drammatico tipico di altri generi.
La musica zen è più difficile da discutere. Una discussione approfondita sulla musica del nō sarebbe troppo tecnica, quindi qui ci limiteremo ad alcune considerazioni generali di carattere introduttivo, per fornire una base per successive discussioni.
I giapponesi sono da tempo consapevoli dei suoni della natura e li hanno identificati con la musica. I cinesi sono stati un po' più titubanti nel far corrisponedere la musica con i suoni prodotti dalla natura. Nella Storia di Genji, la musica della natura gioca un ruolo almeno pari a quello della musica umana. Perciò, nella musica di ispirazione zen, ci si potrebbe aspettare di trovare una situazione estetica simile a quella delle altre arti zen: l'essenza dei suoni della natura evocata col minor numero possibile di mezzi. O, in forma ancora più astratta: l'essenza stessa del suono suggerita col minor numero possibile di mezzi. Entrambi hanno una parte nella musica zen. In primo luogo è necessario determinare, dunque, la natura del suono come viene percepito dai giapponesi.
Il suono esiste in opposizione al silenzio e la musica deve riflettere questo fatto fondamentale. I suoni prendono il loro essere dal silenzio e tornano ad esso. L'intima natura del suono sembra essere collegata, in qualche modo misterioso, con il suo carattere transitorio. Nel suono c'è anche un senso di continuo cambiamento, un "divenire", un inesorabile passaggio da tono a tono e infine di nuovo al silenzio.
L'estetica della musica occidentale si basa sul concetto di un suono distinto come un elemento per la costruzione di forme più grandi, che sono a loro volta combinate a vari livelli architettonici per creare un movimento o un pezzo completo (per esempio, le note C, E, G possono suonare simultaneamente come un accordo, o in sequenza come parte di una frase melodica, l'accordo o la frase possono essere combinati con altri accordi o frasi per la produzione di sezioni armoniche o melodiche, che a loro volta sono combinati per produrre sotto divisioni di movimenti, eccetera).
Invece la musica zen evita livelli di suoni stabiliti come elementi di costruzione, piuttosto collega insieme dei suoni che sfumano l'uno nell'altro, fondendosi. Da questi suoni si sviluppano linee melodiche più lunghe, ma non c'è mai un senso di struttura architettonica, sempre un movimento libero da un'idea all'altra.
Nella musica nō, composta principalmente da utai, cioè canto e hayashi, cioè orchestra, l'elemento ritmico è la chiave di fondo. Il ritmo della musica nō è costruito in modo simile a quello di cui si è appena deto in merito all'organizzazione delle alteze dei suoni. Piuttosto che una serie di blocchi ritmici su un tempo fisso costante, come nella musica occidentale, la musica nō utilizza una struttura temporale continuamente mutevole, che suggerisce in modo efficace diversi gradi di tensione cinetica. Ogni suono ha un suo momento ritmico nello spazio temporale e non è pensato come parte di una figura basata sul tempo fisso dell'orologio; è sè stesso, e non collegato ad alcun immaginario modello sovrapposto.
Un altro genere, la musica dello shakuhachi, si adatta perfettamente a questa estetica. E' sostanzialmente uno strumento melodico (un flauto diritto cavo) molto difficile da suonare, l'esecutore emette dolcemente i suoni che emergono dallo strumento, producendo un'incredibile varietà di timbri e gradazioni dell''intonazione.
Il predecessore cinese di questo strumento (hsiao) era notevolmente più facile da suonare e riusciva a produrre suoni definiti senza alcuna difficoltà. L'influenza dello zen sulla natura di questo strumento è iniziata al suo arrivo in Giappone.
III. Lo zen e l'arte contemporanea occidentale
Artisti e filosofi si sono a lungo posti il problema di cosa si esprima in un'opera d'arte (o, altrimenti detto, di cosa si crei in un'opera d'arte). All'inizio di questo secolo molti artisti occidentali hanno trovato risposte classiche ma insoddisfacenti a questo problema, intralciati dalla difficoltà di individuare significati percepibili da diversi tipi di pubblico. La stessa opera d'arte, scoprirono, poteva infondere sentimenti molto diversi in due gruppi di fruitori ed entrambi potevano essere diversi dalle intenzioni dell'artista; ci si chiede dunque: chi ha ragione? Ha ragione qualcuno? La ridda di teorie estetiche nate da questa ricerca di un'anima ha condotto ad un generale accordo favorevole al formalismo piuttosto che al contenutismo.
In musica, formalismo significa che la musica è pensata per non esprimere o significare nulla al di fuori di se stessa (se non attraverso reazioni specifiche apprese con l’abitudine): la musica non può fare riferimento ad alcun evento specifico o emozione a sé esterna. Tuttavia rimane disaccordo circa l'esatta natura di questa espressione musicale interiorizzata.
Stravinsky sostiene che la musica non può esprimere altro che musica: seguiamo l'evoluzione di un'idea musicale con interesse puramente intellettuale (Stravinsky 1956).
Leonard Meyer teorizza un livello semicosciente di sensazioni affettive causate da reazioni psicologiche di base alle circostanze dei suoni musicali (Meyer, 1956). Le differenze tra Meyer e Stravinsky non sono così grandi, tuttavia, come quelle esistenti tra i formalist, in generale e il gruppo dei nuovi musicisti sotto la guida intellettuale di John Cage.
Cage dice:. . . il sostegno della danza non si ritrova nella musica, ma nello stesso ballerino, nelle sue due gambe e, occasionalmente, in una sola.
Allo stesso modo la musica è costituita da suoni singoli o gruppi di suoni che non sono sostenuti da armonie, ma risuonano all'interno di uno spazio di silenzio. Da questa indipendenza della musica e della danza risulta un ritmo che non è quello degli zoccoli dei cavalli o di altri ritmi regolari, ma che ci riporta a una molteplicità di eventi nel tempo e nello spazio- le stelle, per esempio, o le attività sulla terra viste dal cielo.
Noi non stiamo dicendo qualcosa con le danze o la musica. Siamo abbastanza ingenui da pensare che se avessimo voluto dire qualcosa avremmo utilizzato le parole. Stiamo, piuttosto, facendo qualcosa. Il significato di ciò che facciamo è determinato da ognuno di coloro che lo vede e lo sente. Nel corso di una recente performance. . . uno studente si rivolse al maestro e chiese: "Che cosa vuol dire?" La risposta del maestro fu: "Rilassati, non ci sono simboli qui che possano confondervi. Buon divertimento! Io posso aggiungere non ci sono né storie né problemi psicologici. Vi è semplicemente un'azione di movimento, suono e luce...." (Cage 1961 : 94 96).
Ho citato Cage a lungo, a causa della sua vicinanza con l'estetica zen, e per la chiarezza con cui si esprime. La concezione della musica di Cage è diversa da quella dei formalisti, nel senso che non sente il bisogno di alcuna idea musicale in quanto tale. I suoni in se stessi devono essere ascoltati esteticamente. La differenza fra rumore e musica è nell'approccio del pubblico. In parole povere, il rumore si sente, la musica si ascolta, questa non è una definizione generale, ma dovrebbe essere chiaro l’apporto soggettivo.
"Non ci sono simboli qui per confondervi". Solo l'oggetto estetico, da contemplare per se stesso.
Quando leggiamo il manifesto di Cage sulla musica, il suo legame con lo zen diventa chiaro:
nulla si ottiene scrivendo un pezzo di musica
nulla si ottiene ascoltando un brano musicale
nulla si ottiene suonando un brano musicale (Cage 1961: xii)
Suona come la citazione di un maestro zen: "Alla fine non c'è niente da guadagnare" (Fung, 1952: II, 401). Cage ha studiato zen con Daistezu Suzuki quando il maestro era docente alla Columbia University di New York. E vediamo che Cage ha consapevolmente utilizzato i principi dello zen per risolvere i suoi personali problemi estetici. Egli non cerca in alcun modo di sovrapporre la sua volontà in forma di struttura o di predeterminazione.
Cage, in effetti, ha creato un metodo di composizione dall'estetica zen. In origine era un metodo di sintesi, che traeva ispirazione da elementi dell'arte zen: le veloci pennellate di Sesshu e dei pittori di sumi-e che lasciano macchie d'inchiostro casuali e tracce incontrollate nel scia del tratto, gli imprevedibili disegni nello smalto dei ceramisti cha no yu, la qualità eterna dei giardini di rocce, i grandi spazi aperti dei dipinti di Wang Wei e Mu Ch'i.
Poi, mettendo a fuoco l'elemento del caso come vitale per la creazione artistica, che deve rimanere in armonia con l'universo, scelse l’oracolo I Ching (il Classico dei Mutamenti, un antico libro cinese) come fonte di informazioni casuali, che traduceva in notazioni musicali.
In seguito, ha abbandonato l’I Ching per metodi più astratti di composizione indeterminata: partiture basate su mappe stellari o composizioni di solo silenzio, o con lunghi spazi di silenzio, in cui gli unici suoni siano forniti dalla natura o dal disagio del pubblico: "Lasciate che i suoni siano se stessi."
Molti giovani compositori e pittori hanno seguito le orme di Cage, e la scuola dell'arte indeterminata si è trovata a dover definire delle categorie per delimitare correttamente i vari tipi di composizione casuale. Queste categorie al momento sono tre e sono descritte come segue.
1) Musica indeterminata nella composizione. Questa categoria comprende i brani creati attraverso l'uso di un qualche sistema casuale che separa efficacemente la volontà del compositore dal manoscritto finale. Il brano, come scritto dal compositore, viene eseguito il più accuratamente possibile
2) Musica indeterminata nell’esecuzione. Questa categoria comprende brani che fanno uso di improvvisazione e ha preso molto dal jazz. All'esecutore viene data libertà nell'interpretazione della partitura.
3) Le diverse combinazioni, in varia misura, delle categorie 1 e 2. La terza categoria è la più recente e la più praticata. Come ci si può aspettare, ha suscitato reazioni violente da parte dei critici conservatori e Alan Watts si è sentito in dovere di protestare (1959:11 14):
Oggi ci sono artisti occidentali che dichiaratamente utilizzano lo zen semplicemente per giustificare l'utilizzo indiscriminato di qualsiasi cosa: tele in bianco, musica completamente silenziosa, pezzi di carta strappati lasciati cadere su una tavola e lì fissati o dense matasse di cavi lacerati. Il lavoro del compositore John Cage è abbastanza tipico di questa tendenza. In nome dello zen, ha abbandonato il suo promettente lavoro precedente con il pianoforte preparato per mettere il pubblico a confronto con registratori Ampex che emettono contemporaneamente rumori casuali.
Certamente vi è un notevole valore terapeutico nell'abbandonarsi alla profonda consapevolezza di ogni sorgente visiva o sonora. Per prima cosa, porta alla mente la semplice meraviglia di vedere e di sentire. Inoltre, la volontà profonda di ascoltare o guardare il nulla libera la mente da preconcetti stabiliti di bellezza, creando, per così dire, uno spazio libero in cui possono emergere forme e relazioni del tutto nuove. Ma questa è terapia, non è ancora arte ....
Proprio come il fotografo esperto spesso ci stupisce con il suo illuminare ed inquadrare i soggetti più improbabili, così ci sono pittori e scrittori in occidente, così come nel Giappone moderno, che hanno imparato l'arte autenticamente zen di controllare l'imprevisto. . . Il vero genio degli artisti zen cinesi e giapponesi, nel loro uso controllato del caso, va oltre la scoperta di una bellezza fortuita. E’ piuttosto la capacità di esprimere, a livello artistico, la realizzazione di quel punto di vista finale secondo cui "va tutto bene" e che "tutte le cose condividono lo stesso essere-così". La semplice selezione di una qualsiasi forma casuale inserita in una cornice semplicemente scardina la metafisica e i generi dell'arte; non esprime una cosa nei termini di qualcos’altro.
"Mi pare che protesti troppo" ("Methinks he doth protest too much" nell'originale). Come fa Watts a sapere la misura in cui il caso è "controllato" nell'arte zen? Com'è possibile controllare il caso? Il caso è ricercato o casuale? Quale qualità è più ammirata, la "bellezza fortuita" o la casualità? E come mettere in relazione il kunstgewerbe (artigianato artistico) dei ceramisti al sumi-e? Queste e altre domande, al momento, devono rimanere senza risposta. Cage ha risposto alla diatriba di Watts solamente (1961: XI).
"Per quello che faccio, non voglio sia incolpato lo zen, anche se senza il mio impegno con lo zen (partecipazione alle conferenze di Alan Watts e D.T. Suzuki, letture della letteratura), dubito che avrei fatto quello che ho fatto. Mi hanno detto che Alan Watts ha messo in discussione il rapporto tra il mio lavoro e lo zen. Dico questo al fine di liberare lo zen da ogni responsabilità per le mie azioni. Comunque continuerò su questa strada".
Da dichiarazioni recenti, è certo che Cage consideri i suoi atti ancora sperimentali, tuttavia, sottolinea la necessità di un apprezzamento estetico soggettivo di quegli atti. Il poeta haiku può permeare qualsiasi paesaggio di sentimento poetico, una volta che il paesaggio è stato apprezzato esteticamente. L'ingresso della contemplazione estetica sembra rappresentare una maturazione nell'approccio alla musica di Cage, ma certamente uno degli elementi dell'arte tradizionale zen resta assente nel suo lavoro. Ed è il concetto di essenza o qualità eterna. Cage non tenta di suggerire, nè di limitare i suoi mezzi o materiali. Si è allontanato così tanto dalla disciplina che i suoi elementi casuali molto spesso operano in completa libertà, senza restrizioni esterne di sorta.
Questo non è lo zen, perchè fondamentale nelll'arte zen è la limitazione dei mezzi al minimo assoluto. Cage è esplicitamente eclettico, non sente alcun bisogno di adottare un intero sistema di estetica a causa di alcuni principi. Ha così preso il "tutto va bene", la libertà dello zen e delle arti zen, e lo ha combinato con mezzi voluttuosi più di un'orchestra wagneriana. L'unica auto-restrizione è quella di non consentire alla volontà del compositore di influenzare la scelta dei suoni. Così, l’impressione generale dell'estetica di Cage ha il sapore liquido del taoismo classico piuttosto che quello dello zen.
La domanda cruciale a questo punto è: se la scuola di Cage si muoverà in direzione dei "modelli musicali", o continuerà ad attingere dallo zen e troverà il modo di "esprimere il massimo con il minimo". Entrambe le direzioni sembrerebbroe possibili, ma a causa della tendenza di Cage ad opporsi al "modello" (che implica "significato" e "simbolo"), l’economia di mezzi sembrerebbe più probabile. Si può solo aspettare e vedere.
Fredric Lieberman
Bibliografia
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